Dopo un sabato un po’ complicato, arrivo in tempo per i Fulci che chiudono il cerchio delle esibizioni sul second stage (prima di loro Shading, Slug Gore e Damned Spring Fragrantia, mi perdonino per averli mancati).

FULCI

L’atmosfera è abbastanza calda e quando parte l’intro di Glass, Dome è sul palco da solo a fare gli onori di casa e le presentazioni. In verità, l’impressione generale è che sta preparando spiritualmente i ‘guagliù’ al peggio. E’ così è. Tomb e Apocalypse Zombie si abbattono come una abominevole gragnuola metallica sui malcapitati mentre Fiore dà spettacolo con i suoi ordigni gutturali.
Lonely Hearts riporta per un attimo pace in terra, prima di esplodere e trascinarsi con sé anche Mutual Tribal Cult e il pubblico pogante.

La breve strumentale Voodoo Gore Ritual apre alla seconda parte del concerto che i Fulci padroneggiano senza problemi: Tropical Sun e Among the Walking Dead sono destabilizzanti quanto basta, in particolare quest’ultima consente a Fiore di emettere quegli assurdi suoni stridenti con gli occhi all’indietro che
mettono a dura prova l’impianto voci e le orecchie di un pubblico comunque sempre più appagato.
Legion of the Resurrected, Nightmare e Eye Full of Maggots chiudono benissimo una set list purulenta, ben eseguita da una band che da diversi anni non sbaglia un colpo.

Setlist

  1. Glass
  2. Tomb
  3. Apocalypse Zombie
  4. Lonely Hearts
  5. Mutual Tribal Cult
  6. Voodoo Gore Ritual
  7. Tropical Sun
  8. Among the Walking Dead
  9. Legion of the Resurrected
  10. Nightmare
  11. Eye Full of Maggots

DESTRAGE

Ci spostiamo verso il mainstage dove, dopo Prospective, Benthos e Tense56 (sorry, guys), è il turno dei milanesi Destrage. L’impatto non è male, sul talento della band non si discute, ma quello
che emerge sin da subito è che i suoni della band, saturi di campionamenti e di bassi che ci sono ma non si vedono, tendono un po’ a fluttuare e a disperdersi nell’aria, rendendo nel complesso l’esibizione poco intelligibile da un punto di vista del coinvolgimento fisico e emotivo.
In un palco così dispersivo, Paolo Colavolpe tenta di coinvolgere il pubblico in tutti i modi, ma lo show si è ormai incanalato in una sorta di tunnel di plastica e scivola via senza sussulti né scossoni. Chiaro che la mia sia una constatazione soggettiva, ma tale impressione mi è sembrata di scorgerla anche guardando le reazioni del pubblico. Da rivedere.

Setlist
1. Double Yeah
2. Don’t Stare At The Edge
3. Destroy Create Transform Sublimate
4. Symphony of the Ego
5. The Chosen One
6. Everything Sucks and I Think I’m a Big Part of It
7. Italian Boi
8. Purania

SOEN

Al calar del giorno, è il turno degli svedesi Soen, scesi al Magnolia con una certa aura di supergruppo emergente del prog. La curiosità quindi di vederli all’opera è molta. Si parte con Monarch e Martyrs…sì, la band c’è: Joel Ekelöf alla voce in occhiali scuri, il sorridente chitarrista Cody Lee Ford nella sua bella camicia sbottonata, il biondo Lars Enok Åhlund un pò ingrugnito ma presente, il dreadlockoluto Oleksii “Zlatoyar” Kobel al basso e il barbuto Martin Lopez alla batteria.
Sì, però anche qui, dopo i molti sorrisi scambiati, gli applausi d’incoraggiamento, gli occhiali da sole tolti sul più bello, i cambi di posizione e ammiccamenti vari, lo show fa una dannata fatica a decollare.
È chiaro che il genere proposto dai Soen, costruito su suoni pastosi e linee melodiche raffinate, punta ad impattare non la pancia del pubblico tantomeno la collottola tuttavia anche qui – come con i Destrage – si nota una certa difficoltà di far combaciare gli intenti con i risultati, colpi sparati ma che raramente colpiscono il bersaglio. A conferma di ciò, se il momento migliore dello show che ci sembra di ricordare nei loro quaranta minuti è il solo di basso di Kobel, forse la mira è davvero un po’ mancata.

Setlist

  1. Monarch
  2. Martyrs
  3. Savia
  4. Modesty
  5. Antagonist
  6. Lotus

MESHUGGAH

E arriviamo ai tanti attesi Meshuggah: dopo 6 minuti di intro si parte con Broken Cog. La scenografia si compone di strutture di un rosso pulsante dove i nostri vi si stagliano statuari nella loro bestiale immobilità. Bellissimo contrasto che si sposa alla perfezione con il trip ipnotico e martellante tipico del loro sound. I ritmi sincopati di Rational Gaze spezzano la nervatura e gli scapocciamenti controllati di Jens Kidman, la cui barba a punta si muove come un sinistro pendolo mortale, scandiscono un tempo che sa di orge primitive e ancestrali. Bellissime nella loro andatura marziale anche Ligature Marks e Born in Dissonance che chiudono una prima parte dello show nella quale i Meshuggah dimostrano una inalterata metronomica potenza. Cambio di scenografia, e si parte con Catch 33: il rosso di Marte diventa un blu alieno in cui campeggiano architetture senza tempo. Il rito sabbatico non accenna a placarsi e The Abysmal Eye si conficca nelle ossa con la sua ossessiva avvolgente andatura a spirale. Devo dire che raramente mi è capitato di assistere a concerti dove l’attenzione e il coinvolgimento sono stati ai massimi livelli fin dal primo minuto. Demiurge e Future Breed Machine perpetrano la missione delittuosa di queste inossidabili macchine da guerra e chiudono il conto, senza alcuna possibilità di replica.
Si accendono le luci. Qualche malumore emerge per via di una setlist troppo breve per degli headliner,
in tutto poco più di un’ora di concerto, ma a conti fatti, almeno per me che li vedevo dal vivo per la prima, si è trattata di un’esperienza assolutamente devastante.
Onore e gloria a loro.

Setlist

  1. Broken Cog
  2. Rational Gaze
  3. Ligature Marks
  4. Born in Dissonance
  5. Catch Thirtythree
  6. The Abysmal Eye
  7. Demiurge
  8. Future Breed Machine

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *